Max Ernst a Milano e una lettura di Edipo Re

A Milano una mostra di oltre 400 opere racconta la vita e le opere di Max Ernst a Palazzo Reale. Un percorso suggestivo che fino al 26 febbraio 2023 potrete ammirare e conoscere arricchito da molta documentazione che permette ai visitatori di entrare nel merito di competenze tecniche, conoscenze ed esperienze di vita dell’artista. La visita a questa mostra offre uno spaccato interessante non solo dell’artista, ma sul metodo, su come le esperienze di vita e il proprio modo di connettersi con il mondo possono portare alla costruzione di un linguaggio, in questo caso pittorico, capace di rivoluzionare il modo di guardare di tutti.

Va dato merito ai curatori, Martina Mazzotta e Jürgen Pech, per la cura dei dettagli e la ricchezza di documentazione. Per la mostra sono confluite a Milano opera da diverse collezioni, tra queste, la GAM di Torino, la Peggy Guggenheim Collection e il Museo di Ca’ Pesaro di Venezia, la Tate Gallery di Londra, il Centre Pompidou di Parigi, il Museo Cantini di Marsiglia, i Musei Statali e la Fondazione Arp di Berlino, la Fondazione Beyeler di Basilea, il Museo Nazionale Thyssen-Bornemisza di Madrid.

Il percorso si articola per aree tematiche. Nelle sale La rivoluzione copernicana e la successiva, All’interno della visione si parla della famiglia, del padre e della guerra che lo vide soldato e ferito e scampato alla morte; seguono La casa di Eaubonne e Eros e metamorfosi in cui parla del suo modo di vivere l’amore, l’amicizia e la sessualità tanto da vivere, per un certo periodo un ménage a trois con Gala e Paul Éluard; I quattro elementi (foreste/terra, uccelli/aria, mare/acqua, orde/fuoco), Natura e visione, Il piacere di creare forme (Gestaltungslust)il piacere dell’occhio (Augenlust) in cui si evidenzia l’importanza che l’artista attribuisce alla natura, l’attenzione che dedica al paesaggio, ma anche la sperimentazione artistica con tecniche che poi saranno applicate da altri artisti nel 900 come frottage, grattage, decalcomania e dripping; seguono infine Memoria e Meraviglia, che mostra il valore che Ernst attribuisce alla storia producendo un’arte che intrattiene con il passato e la memoria un rapporto intimo e consapevole e la sala Cosmo e crittografie di cui si legge nel comunicato stampa della mostra: ” Negli anni che precedono lo sbarco dell’uomo sulla Luna, arte e scienza dialogano nelle opere di Ernst, dischiudendo sguardi inediti sul cosmo e coinvolgendo l’astronomia come l’antropologia, la fisica come la patafisica. Opere, libri e cinema introducono alle straordinarie scritture segrete dell’artista, a quelle crittografie che si spingono oltre ai linguaggi codificati e si rivolgono a coloro che sono capaci di svelare i misteri del cosmo”. Per approfondimenti

Un uomo colto, curioso, imprevedibile, uno spirito libero ecco cosa emerge da questa mostra sulla personalità dell’artista e la sua opera parla di questo, del suo piacere di osare, stupire, creare connessioni, liberarsi dagli stereotipi.

All’ingresso della mostra c’è un’opera importante che subito ci offre uno spaccato della capacità espressiva di Ernst e della sua forza: Edipo Re. L’opera vista dal vivo è uno “scrigno” piccolo denso di meraviglia che mi ha totalmente preso tanto che mi sono avventurata in una sua lettura simbolica che ora vi propongo.

Max Ernst Edipo Re

Edipo Re letto da Melina Scalise

Quando Ernst dipinse questo quadro aveva 31 anni. Lo intitolò Edipo Re riferendosi al mito di Edipo che uccise il padre e sposò la madre, senza sapere che fossero i suoi genitori biologici ed ebbe da lei dei figli. Quando scoprì la verità, Edipo si accecò trafiggendosi gli occhi con una spilla della madre e lei si impiccò.

Una storia tragica e crudele che diede il nome al complesso di Edipo della psicoanalisi freudiana, ovvero, al desiderio del figlio di possedere la madre e “uccidere” simbolicamente il padre come tappa evolutiva dell’essere.

Max Ernst era certamente affascinato sia dal mito che dalla psicoanalisi, come molti degli artisti di quell’epoca, e la sua pittura fece ampio uso di sperimentazioni, esplorazioni ed espressioni di quell’universo immaginifico denso di allegorie. Proprio per questo diventa quasi impossibile osservare un lavoro dell’artista senza soffermarsi a cercare di comprenderne il senso.

Fra le tante opere, Edipo Re è senz’altro quella che ci pone, quasi in modo violento, di fronte ad una sorta di enigma. Il quadro si sviluppa su tre piani.

La noce

In primo piano troviamo una mano che afferra una noce di cui vediamo solo quattro dita e, alcune di queste, sono infilzate da una specie di ago. E’ insolita la scelta di questa presa perchè, in genere, usiamo pollice e indice. Qui, invece, la noce è tenuta da tre dita: il pollice, il medio e l’anulare. Così facendo, inevitabilmente l’indice si deve alzare e distanziare. Questa azione ci fa notare che la noce è toccata dal dito medio che, simbolicamente rappresenta il fallo e dal dito anulare che porta la fede ovvero l’anello coniugale (da notare che nel dipinto la mano è la sinistra quella dove si porta la fede nuziale). Con questa scelta probabilmente Ernst ha voluto dirci che la noce può essere toccata dal fallo coniugale ovvero dal marito. La noce del quadro, del resto, con la sua apertura centrale nel guscio ricorda un organo genitale femminile.

Da dietro la noce appare una conchiglia che, con la sua parte aguzza, spinge e preme chiaramente sull’indice (si può dedurre questo dall’ombra sul dito attorno alla parte premuta dalla conchiglia). Questo ci permette di notare che esiste una forza di opposizione che parte dalla “donna-noce-conchiglia” all’avvicinarsi dell’indice (da osservare anche che il dito indice dritto – per l’appunto nell’atto di indicare – è l’azione della mano spesso raffigurata nel rappresentare Dio creatore (pensiamo, per esempio, al capolavoro di Michelangelo) o semplicemente l’”altro” da sé. Inoltre, la conchiglia ha sempre rappresentato simbolicamente la donna, il suo potere riproduttivo, la sua sessualità e l’acqua portatrice di vita. Per questa ragione la conchiglia attaccata alla noce duplica la presenza femminile nel quadro (la noce semiaperta rappresenta l’organo genitale femminile) e lo esalta ed enfatizza ponendolo come oggetto dominante e del contendere. Attraverso questa scelta, Ernst, però, forse vuole dirci anche che non si tratta di una donna qualsiasi. Nella mitologia la noce è associata alla figura di Caria, la donna amata da Dionisio, che fu trasformata in questo frutto e da cui deriva il nome cariatidi ovvero di statue lignee di donne usate come pilastri. La noce rappresenta, altresì, nella simbologia il sacro perché si compone di tre strati: guscio, mallo e gheriglio. Alla luce di quanto emerso potremmo dunque pensare che la noce nel quadro di Ernst, rappresenta la donna della casa (un pilastro della casa) e la madre con la sua “sacralità”. Dunque non è un caso che questa noce fuoriesca dalla finestra di una costruzione che tanto ricorda un’abitazione. E’ singolare anche scoprire che, Ovidio raccontava che, in epoca romana, la noce veniva usata come gioco dai bambini e veniva lanciata agli sposi per alludere alla fine dei giochi, ovvero al termine della fase ludica della vita (se ci pensate l’uomo non sposato si chiama “scapolo” che significa colui che non vuole lavorare- scapolare). Questo elemento non è di poco conto perché, nel racconto mitologico Edipo diventa Re fecondando (senza saperlo) la madre e questo avviene attraverso il matrimonio con sua madre e quindi – ignaro che fosse colei che lo aveva messo al mondo – si assume tutte le responsabilità di marito e padre dei suoi figli- fratelli. Anche in psicoanalisi la soluzione del complesso di Edipo segna un passo decisivo nella maturazione del figlio e della sua indipendenza.

L’arco

Tornando al quadro è da notare che l’opposizione della donna al figlio avviene però quando lei è già stata inseminata. Si nota, infatti, che la noce è stata trafitta da una specie di arco – ago che fora il suo guscio e, contemporaneamente trapassa l’indice e il pollice e, questa macchia bianca si trova esattamente tra le due dita che simboleggiano il padre e il figlio perché entrambi trafitti, insieme alla noce, da un legame affettivo (l’arco). Questo arco-ago tende un filo teso da cui è stata già scoccata una freccia che ha trafitto la noce sulla sua parte destra ovvero quella del cuore e del sentimento. La freccia e l’arco nella mitologia rappresentano simbolicamente l’amore e il desiderio (Cupido) e questa donna è colpita sentimentalmente e attraversata fisicamente da entrambi: sia il marito che il figlio sono passati dalla stessa apertura della noce (il filo ci passa attraverso aprendola). Nel quadro il fatto è compiuto, l’incesto è compiuto e la macchia bianca potrebbe simboleggiare il liquido seminale che penetra e feconda la madre e, con la punta aguzza, invece, penetra e uccide il padre. La parte superiore di questo ago-arco è chiaramente diversa rispetto alla parte inferiore che si trasforma in una specie di ago e forse, richiama anche la spilla attraverso la quale Edipo si acceca trafiggendosi gli occhi. La parola spina deriva dal latino spiculum che si riferisce alla spina che – forse non a caso – viene simbolicamente associata al fiore per antonomasia dell’amore che è la rosa rossa che porta piacere, ma anche dolore (le cui parti -fiore e spina- ricordano i due organi sessuali femminile e maschile). Da notare anche l’assonanza di spiculum con speculum che è il nome dello strumento chirurgico che serve a penetrare per dilatare al fine di vedere. Nel caso di Edipo che si acceca con una spilla il gesto evoca l’atto simbolico di punirsi attraverso l’autopenetrarsi e annullare il suo potere di guardare la realtà o, semplicemente, l’altro (il primo “altro” del bambino è la madre). Edipo che si acceca annulla l’altro e il mondo. L’Edipo nel dipinto di Ernst è dunque, simbolicamente, l’indice. Tale rivelazione ci porta al secondo piano dell’opera.

La coppia

Vediamo due teste che sembrano – a prima vista – quelle di due uccelli in coppia in posizione statuaria e regale (di profilo, come delle statue egizie). Questi animali sono ricorrenti nell’opera di Marx Ernst e, anche in altre tele, l’uccello è in gabbia. Il primo pennuto ha un occhio con lunghe ciglia, il che ci fa pensare ad un occhio femminile e ha un colore verde che ricorda la fertilità. Sul suo collo si erge una specie di staccionata come se fosse incollata in modo innaturale, come se fosse parte del suo corpo quella costrizione che le impedisce persino di ruotare la testa, ovvero di guardarsi attorno (noi usiamo questa espressione per esplorare, per conoscere). E’ una passera, ovvero la femmina di un uccello, che è costretta a stare accanto all’uccello al suo fianco, probabilmente il “passero”, l’uomo. Entrambi non sono liberi (ma certamente è più costretta la figura femminile) e sono impossibilitati a muoversi perché il loro corpo è chiuso sotto una struttura che li costringe al suolo, nonostante una diversa natura (sembrano entrambi uccelli e pertanto, per natura, destinati al volo e al cielo). Questo ci fa pensare a limite. Il loro corpo è sepolto, per noi, ma anche per loro che lo possiedono a cui, altrettanto, è impedita la vista. Lo possono solo immaginare il loro corpo e toccare. Ciò che vuole dirci Ernst è forse che esiste una scissione del corpo tra razionalità e istinto?  Vuole forse ricordarci che noi il corpo nella società (la scena è fuori dalla casa) lo copriamo e quindi lo nascondiamo alla vista, che non ne guardiamo la nudità? Che lo costringiamo? Quella struttura forse è la società che impone le sue regole, i suoi ruoli, il suo conformismo e impedisce a tutti la libertà, in particolar modo alla donna. In questo contesto il maschio si trasforma in un “toro” per mostrare quella che è una virilità canonica che lo vuole lottatore, antagonista e pronto alla difesa del suo “trono” per non rischiare di perdere la legittimità della prole. Guardando con maggiore attenzione, infatti, il compagno della passera ha una forma della testa simile a quella di un uccello ma, verso il becco, il muso sembra quello di un toro. Ad avvalorare questa interpretazione non solo l’assenza del becco, ma la presenza delle corna. A questo si aggiunge un altro dettaglio: l’occhio leggermente insanguinato della passera e quello tutto rosso del toro (animale che esprime simbolicamente il potere maschile istintivo, ma è anche rappresentazione della divinità). Questo lascia pensare all’ira. Per la costrizione? Forse, ma anche all’ira per il tradimento di lei perché nel dipinto- e nella mitologia – è il maschio che simbolicamente porta le corna (mito di Minosse tradito dalla moglie con un Toro da cui nasce il Minotauro) e, nel mito di Edipo, è comunque il marito e padre che viene tradito. Dunque in Edipo Re il toro manifesta il maschio e il suo sentimento di potenza e ruolo sociale che, tuttavia, Ernst ridicolizza con la presenza di un filo esilissimo che sembra cadere dall’alto, dal cielo, come a “volerlo tenere per le corna”, ovvero “a bada”. Un laccio puramente simbolico perché all’animale basterebbe scuotere la testa per liberarsene. Questo può indurci a credere che Ernst, con questo laccio, voglia esprimere più che altro un “legame” e non una “briglia”, un’”assicurazione” ed impedimento di fuga. Il vincolo a cui si riferisce potrebbe essere quello tra il padre e il figlio perché il filo del quadro esce dalla tela per andare in un altrove in tutti i sensi (padre celeste? Padre invisibile?), in un luogo del trascendente, in uno spazio autonomo, lontano e indipendente di cui si ignora l’origine. Colui che è legato potrebbe dunque essere il figlio (l’Uomo o il Cristo, agnello sacrificale) che si sacrifica per i peccati degli uomini e, pur sapendo benissimo che sarà costretto a morire a Terra, non si libera dal laccio e va incontro al suo destino. Cosa c’entra questo con Edipo? Forse ha una relazione con il sentimento della colpa, con il peccato, con il dilemma tra istinto e ragione, tra corpo e carne. Ogni sentimento di colpa, del resto, porta a nasconde lo sguardo, a nascondere le mani, quello che tra l’altro chiamiamo “corpo del reato”. Qui il corpo del reato è quello dell’Uomo e della sua specie.

La mongolfiera

Nel terzo piano del quadro il nostro sguardo si sposta verso il lato destro rispetto ai due imprigionati a terra e poi si muove verso l’alto. La coppia di teste guarda davanti a sé uno spazio che ai nostri occhi appare libero di ostacoli, ma non ci è dato sapere cosa stiano guardando. L’azione, non si svolge davanti ai loro occhi, bensì a lato, sul loro lato sinistro. Loro sono ignari di quanto sta accadendo attorno a loro e restano concentrati nella loro fissità.

Noi vediamo la recinzione di un’area dove i muri sono stati costruiti solo dalla loro parte, come se fossero stati voluti da qualcuno per impedire loro, nel caso si dovessero voltare, di vedere. Cosa? Forse semplicemente la fine perché non solo i muri del recinto cessano oltre il loro sguardo, ma anche la piattaforma in cui sono imprigionati. Sia i muri che il pavimento si aprono e terminano aprendosi verso il cielo dove si scorge una mongolfiera lontana. La libertà è solo nascosta alla vista.

In qualche modo Ernst ci invita a fare una distinzione tra Terra e Cielo ovvero la Terra come luogo dove non possiamo vedere liberamente tutto, esprimerci come siamo per natura (uccelli che possono volare), costretti da muri eretti dagli uomini a guardare solo una parte dello spazio, quando, in realtà, lo spazio è infinito.

La mongolfiera porta il nostro sguardo fuori dal dolore (il trafiggersi delle mani, le tensioni emotive tra gli uomini, le costrizioni sociali e morali) e ci lascia immaginare un viaggio verso l’alto, leggeri verso una forma di libertà, ma anche di mistero. Questo finale certamente si avvicina all’indole di Marx Ernst che non è mai stato conformista e nella vita ha osato tanto quanto nell’arte. Forse lui si è immaginato lassù, in quella mongolfiera.

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