Storie milanesi: l’Orfanotrofio maschile Martinitt

Sono rimasto orfano di entrambi i genitori a due anni e avevo un fratello gemello e una sorella maggiore. Qui ho vissuto fino a quando non ho trovato un lavoro, ma, in qualche modo, io vivo ancora qui” – a raccontarci la sua storia e la sua vita quotidiana dagli anni 50 fino alla maggiore età è Renato Marelli della Onlus ex Martinitt e ex Stelline grazie all’iniziativa dell’associazione Vivi Lambrate che ha organizzato una serie di visite guidata al Campus Martinitt, ex Orfanotrofio Maschile. “Ho scritto un racconto sulla mia vita e l’ho intitolato La grande Fuga” e solo a fine visita comprendiamo fino in fondo perchè.

Renato ci ha introdotto all’interno un luogo storico della città di Milano costruito anche grazie alle donazioni di molti privati, i ritratti di alcuni, si possono vedere all’interno della sede della Onlus. L’orfanotrofio in via Pitteri fu inaugurato il 26 ottobre del 1932, ma l’istituzione fu fondata nel 1532 e prende il nome dalla chiesa di San Martino, a Milano, di fronte alla quale, Francesco Sforza offrì all’orfanotrofio una sede più ampia di quella originaria in piazza San Sepolcro. Oggi la struttura, in parte venduta a privati, è proprietà del Pio Albergo Trivulzio e gestita dall’Aler che affitta a studenti universitari fuori sede.

Eravamo in tanti circa 500 ragazzi – racconta Renato– io ero molto piccolo e non avevo mai conosciuto i miei genitori e quindi non sapevo cosa volesse dire averli, vivere con loro. Altri non erano “fortunati come me” c’era chi aveva la madre fuori di qui e la odiava per la scelta di portarli qui. Con gli anni, però, tutti abbiamo capito le difficoltà. Resta, che qui la vita era dura”.

La struttura con un ampio corpo verde centrale e attorno prati e aree gioco era organizzato, specie nel primo decennio di permanenza di Renato nell’Orfanotrofio, con regole “militari” compresa, tutte le mattine, l’alza bandiera e fare il “cubo” con il materasso come usavano i soldati con la loro branda. Non c’era distinzione d’età e chi non riusciva doveva rimettere a posto branda, materasso e lenzuola. La pulizia dei locali era a turno tra i bambini e, nello stabile, prima degli anni 50 c’erano anche due camere /celle chiamate “stanze della riflessione”. Un grande cartello invitava insegnanti, educatori ed istruttori a non infliggere pene corporali, ma, di fatto, queste regole venivano disattese e tra schiaffi, bastonate e “messe al muro” (questo era il termine che veniva utilizzato per far trascorrere ai più ribelli l’ora di intervallo senza giocare) si praticava un approccio educativo impostato sulle punizioni e le umiliazioni ritenute sane pratiche d’insegnamento.

Ricordo che una volta stavo colorando una mucca – racconta Renato – e sbagliai il colore che dovevo dare e mi venne spontaneo esclamare un’espressione che avevo sentito direi ai ragazzi più grandi perdendo un gol che giocavano nell’altra ala dell’edificio: “vacca troia”. Fui subito punito con qualche ceffone ed io non capivo perchè. Noi non avevamo contatti con il mondo esterno se non tre volte all’anno se si andava in famiglia (Natale, Morti e Pasqua) e quindi non conoscevo le parolacce. Mi venne in soccorso un educatore che non condivideva l’atteggiamento dell’istruttore e mi chiese se sapevo cosa volesse dire “vacca troia” ed io gli risposi “no” e che avevo semplicemente imitato i ragazzi più grandi di me. Mi ricordo bene quel gesto, quel rivolgermi una domanda perchè qualcuno si era interessato a conoscere come pensavo“.

Fa riflettere oggi questo racconto, alla luce di quanto le cronache riportano sull’aver reintrodotto il valore dell'”umiliazione” come principio educativo da parte del Ministro della Pubblica istruzione Valditara, sebbene si sia ravveduto sul vocabolo chiedendo poi scusa, è pur vero che si rende necessario prestare attenzione a ciò che la storia ha insegnato sulla proprietà di linguaggio, ma anche sui principi educativi da perseguire e quindi all’importanza dell’ascolto prima dell’arroganza del giudizio.

Non era facile vivere qui – prosegue Renato – e ricordo che potevano usufruire di questo ricovero ed educazione scolastica, per lo più finalizzata al lavoro, solo gli orfani che avevano una famiglia alle spalle che facesse da garante (per intenderci figli di nessuno, abbandonati o figli di ragazze madri non venivano accettati). Appena si iniziava a lavorare lo stipendio veniva lasciato per 3/4 al collegio coprendo la retta e si veniva mandati in famiglia appena qualcuno aveva comportamenti ritenuti non idonei. Ricordo di un mio amico di origini calabresi che, non potendo tornare a casa dopo l’espulsione per ragioni di distanza, fu mandato in un altro istituto appena fuori Milano, dove era risaputo che chi ci finiva veniva rapato a zero, privato dei vestiti e, molti di quei ragazzi finivano al Beccaria“.

Ciò che colpisce di questo racconto è l’isolamento sociale (era ritenuta vietata persino la lettura di Diabolik e sconveniente quella di Topolino), oltre all’isolamento affettivo perchè persino tra fratelli orfani, se c’era una differenza di età, pur essendo nella stessa struttura, non potevano frequentarsi (nei momenti di intervallo erano divisi per fasce d’età e classi). Le bambine poi venivano portate alle Stelline e quindi, nel caso di Renato, egli potè frequentare la sorella solo dopo l’uscita dai rispettivi orfanotrofi. L’igiene personale, con lavaggio vestiti (anche intimi), e doccia era possibile solo una volta a settimana. Questa avveniva in gruppo e con a disposizione circa 5 minuti a testa di acqua calda spintonandosi.

Io ho visto una ragazzina a distanza di venti centimetri da me solo a 14 anni – racconta Renato – perchè avevano organizzato un ballo. Noi ragazzini eravamo terrorizzati perchè non sapevamo nemmeno cosa significasse ballare e come si ballasse. Ricordo di essere stato invitato da una ragazza intraprendente a ballare un lento e, mentre si sentivano le note di “A chi” di Fausto Leali, lei mi mise le braccia al collo e io feci altrettanto: ero solo rosso come un pomodoro e non sapevo che dovevo metterle le mani sui fianchi. Non ho più ballato in vita mia”.

In questo clima di isolamento e di insegnamento rigoroso di regole, probabilmente, ciò che diede a questi ragazzi valore e senso della vita fu proprio lo stare insieme, tant’è che ancora oggi raccontano le loro esperienze e si incontrano con un senso di comunità e famiglia. Con orgoglio manifestano i risultati raggiunti (e ne hanno ragione) e forse, in alcuni, c’è stata anche una voglia di riscatto e di desiderio di riconoscimento sociale che li ha spinti a perseguire, con decisione, obiettivi ambiziosi.

Nell’Orfanotrofio Martinitt vennero comunque accompagnati all’inserimento lavorativo tanti giovani. Entrare in questo istituto era quasi una garanzia di lavoro futuro e questo costituiva un vantaggio per molti giovani dell’epoca e motivo, per molti genitori, privarsi dei figli per offrire loro opportunità di vita migliori. Tra i famosi cresciuti ed educati al Martinitt ricordiamo Angelo Rizzoli che fece il tirocinio alla tipografia e casa editrice “Grafiche Marucelli”, nella cui sede oggi c’è la Casa Museo Spazio Tadini.

Il libro che potrete trovare alla sede della Onlus ex Martinitt e ex Stelline

Con il passare degli anni, gli approcci educativi si modificarono anche presso questa struttura. Il nostro accompagnatore Renato, nonostante il suo spirito ribelle è consapevole di aver vissuto una fase che comunque era meno rigida e punitiva perchè erano entrate già in disuso le “camere di riflessione”. E’ doveroso ricordare, altresì, che, in quegli anni, fino agli anni 60, anche nelle scuole statali era costume mettere in punizione dietro la lavagna, bacchettare, ispezionare la pulizia dei capelli e delle unghie facendo notare davanti a tutti se si era sporchi. Inoltre, dietro i grembiuli obbligatori come divise spesso non si celava un desiderio di uniformità, ma di discriminazione sessuale tant’è che, in alcune scuole medie, era obbligatorio solo per le ragazzine.

Visita guidata organizzata da:

Il Gruppo ViviLambrate nasce nell’ottobre 2014 in forma spontanea ed auto-organizzata, da un insieme di realtà  e associazioni radicate in Zona 3, che si sono messe in rete con l’obiettivo di promuovere iniziative culturali e sociali per rivitalizzare il quartiere di Lambrate.
Il Gruppo promuove la riqualificazione degli spazi pubblici e privati del territorio, dal cuore storico della Lambrate di Via conte Rosso e Piazza Rimembranze, sino alle aree ex industriali  del polo Ventura / Lambrate, che costituiscono un grande patrimonio ancora troppo poco valorizzato per i cittadini, non solo di Lambrate ma della città di Milano !

autore Melina Scalise


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