Mettiamoci in viaggio: da Tadini una lezione sulla condizione dell’Uomo

Siamo profughi. E’ bastato esattamente un anno dalla mostra che organizzammo alla Casa Museo Spazio Tadini su questo tema con le opere di Emilio Tadini, Profughi, per scoprire, che questa volta, non c’è più bisogno di una mostra per riflettere che i profughi non sono solo gli altri, quelli che vedevamo migrare dalle guerre e dalla fame, ma siamo noi. Credevano di essere seduti su delle certezze, ma abbiamo scoperto che dobbiamo rimetterci in viaggio.

Emilio Tadini, pittore, scrittore e saggista era nato nel 1927 e morto nel 2002. Da figlio del Novecento, aveva visto la guerra, il crollo del Muro di Berlino e fece appena in tempo a vedere il crollo delle torri gemelle. Il suo studio e lavoro artistico non perse mai l’attenzione sull’Uomo e la vicenda umana e, a differenza di tanti altri artisti del suo tempo, non ha mai rinunciato nemmeno per un secondo a rappresentare l’uomo, a raccontare il suo “viaggio” nel mondo e cercarne senso: dal mito al vangelo, dalla filosofia alla psicoanalisi, fino a giungere alla fiaba.

Si dice che la storia degli ultimi anni sia stata accelerata, ebbene, se leggete questo testo di un anno fa, capirete quanto sia stato veloce questo tempo e quanto siano urgenti e contemporanee le riflessioni che pone un maestro come Emilio Tadini.

L’umanità errante: Profughi di ieri e di oggi – testo di Melina Scalise (marzo 2019)

Quella del profugo mi sembra una metafora che rappresenta bene la nostra condizione attuale – la condizione della nostra cultura, alta o bassa che sia. Sbaraccare, andar via… lasciare la casa delle certezze, delle sicurezze. (Emilio Tadini su Profughi, 1989)

Così scriveva Emilio Tadini nel catalogo della mostra Profughi sui sette trittici che dipinse nel 1989 (anno della caduta del Muro di Berlino), alcuni dei quali esposti presso la Casa Museo a lui dedicata: Spazio Tadini. Al tema l’artista dedicò molta attenzione tanto che seguirono una pubblicazione di poesie Profughi in L’Insieme delle cose (Garzanti 1991) e un romanzo “La tempesta” (Einaudi 1995, premio Campiello e spettacolo teatrale). Del resto Tadini era una artista che potremmo definire “rinascimentale”, in cui l’uomo era al centro di tutta la sua poetica.

Quella dichiarazione, tuttavia, sembra calzare perfettamente anche oggi.

Emilio Tadini, pittore e scrittore del Novecento, che aveva vissuto la guerra, che aveva visto la gente fuggire da Milano sotto i bombardamenti, portar via il suo compagno di banco perché ebreo, che aveva sofferto per la sua insegnante uccisa in piazzale Loreto, quando crollò il muro di Berlino è come se rivivesse quella condizione di perdita e vuoto. Nei suoi appunti del 1989 riaffiorano alla memoria i ricordi di allora. La perdita dell’assetto socio politico costituito dall’asset Est e Ovest che per 40 anni aveva fatto vivere il mondo con la guerra fredda definendo confini, appartenenze ideologiche e giochi di forza lasciava il vuoto.

In quest’epoca, che molti sociologi definiscono l’”era globale”, la “questione profughi” è di estrema attualità politica e sociale. Ma qual è il vuoto di oggi?

Mollare tutto e andar via vuol dire credere che esista un altrove. E’ già qualcosa. Molto di più, comunque, di tante certezze, pompose quanto infondate. (Emilio Tadini sui Profughi, 1989)

Per definizione il profugo è colui che fugge da una situazione e si trova costretto al cambiamento. Spesso è nelle condizioni di impossibilità di ritorno. Non necessariamente l’essere profughi è da riferirsi dunque ad un luogo fisico. Così lo intendeva Tadini riferendosi al “lasciare la casa della certezze” e su questa base io e Francesco Tadini abbiamo stimolato a lavorare alcuni artisti contemporanei. Sessantanove tra pittori, fotografi e scultori hanno rappresentato quali sono le condizioni che portano l’uomo contemporaneo a vivere in una condizione di perdita delle proprie certezze, di instabilità e fuga.

Ebbene anche oggi la storia di ripete. L’assetto della “guerra fredda” oggi vede il mondo dell’”era globale” diviso tra il Nord e il Sud del Pianeta.

La mostra presso la Casa Museo Spazio Tadini sottolinea quanto la condizione del profugo sia radicata nella storia dell’umanità.

Oggi assistiamo a nuovi stravolgimenti che producono costantemente nuovi profughi e non necessariamente arrivano da lontano, li troviamo anche a casa.  Qui, in Italia. Ci sono profughi della crisi economica, dell’assenza di ideologie politiche ed economiche in cui trovare risposte ai bisogni (vedasi la messa in discussione dell’Unione Europea). Profughi dei riferimenti religiosi: la chiesa cattolica fa i conti con l’assenza di vocazioni e con gli scandali, l’Islam con gli estremismi.  Profughi dei valori familiari e delle relazioni: le unioni sono totalmente rinnovate e stravolte, a volte il ménage domestico diventa contesto di morte anziché fonte di sicurezza e rifugio. Si è profughi anche dell’identità sessuale che non appartiene più all’evidenza corpo.  Dove porterà tutto questo stravolgimento dei riferimenti?

Siamo naufraghi, come i miti ci insegnano da sempre. Del resto nasciamo profughi: dal luogo dell’acqua e del buio siamo passati a quello dell’aria e della luce e ne sopravviviamo solo attraverso l’accoglienza. L’intera umanità si fonda su leggende di eroi naviganti, costretti a vincere ogni insidia o ad accettare continue sfide prima di arrivare a casa.  Non ultima la sfida a Dio. Ma qual è questa casa? Qual è il rifugio?

Doppia è la condizione del profugo da una parte l’angoscia di dover lasciare la propria casa materiale e tutto quello che essa ha rappresentato per lui, per il suo immaginario, dall’altra la speranza l’eccitazione provocata dalla presenza, evasiva ma vera, della nuova casa di cui sta andando in cerca. (….)

Può capitare che il profugo si lasci dietro, fra le tante cose, anche qualche frammento del famoso soggetto. Ma non è certo il caso di farne una tragedia. Che spazi apre la mancanza! (….)

Una volta che il profugo ha fatto delle valigie per una partenza definitiva, gli viene il sospetto che non troverà mai più il posto in cui poterle disfare, quelle valigie, una volta per tutte. (…)

(Emilio Tadini sui Profughi, 1989)

Emilio Tadini nelle tele del 1989 a questo riguardo ci ha proposto di indagare il mito, la fiaba e le religioni passando attraverso un linguaggio ricco di simboli e metafore. Ci ha evidenziato il valore dell’equilibrio tra il tragico e il comico, ma soprattutto ci ricorda costantemente che l’uomo è seduto sul niente e nella notte consuma la sua sfida al nulla, alla fatica di sostenere il nulla, armato delle uniche cose che possiede veramente: l’esperienza e l’immaginazione.

Emblematica è l’opera Il corridore notturno, dove al centro della tela vediamo un corridore con la maglia gialla con in mano una candela che beffardo si rivolge alla testa che lo guarda dall’altro come se fosse Dio. Essere corridore è accettare una sfida.

Il corridore notturno Emilio Tadini

La notte, per Tadini, è la fase temporale in cui l’uomo può liberare tutte le sue energie immaginifiche e avvalersi di quello stato che tanto amava Spinoza perché porta all’allontanarsi dalla ragione per avvicinarsi all’intuizione.

In questa insonnia che ci è toccata, avrà il coraggio, chi è muto, di correre via, di volare? Avrà il coraggio, lo storpio, di immaginare, e il disperato di sperare? E il cieco, avrà il coraggio di ascoltare? (Emilio Tadini canto III Profughi, 1991)

Emilio Tadini, Insomnia night

Tadini in tutta la sua poetica ha sempre ricercato il senso delle vicende umane, fin dal suo primo componimento poetico La passione secondo Matteo (1947) in cui si poneva la questione del perché della guerra e del perché, in fondo, Dio può permetterla.

Tadini non era un credente, ma ogni sua osservazione del mondo teneva conto di una dimensione di forte spiritualità. Costante è il riferimento al sacro, persino nella scelta di iniziare a lavorare, per il ciclo Profughi con dei trittici, così come fatto fonte Max Beckmann, fonte per lui di ispirazione nonché profugo, perseguitato dal Nazismo per la sua arte Degenerata.

I profughi di Tadini si muovono in uno spazio aereo, in assenza di gravità come se fossero cose, con attaccati al corpo cartellini da viaggio. Si muovono come e con le cose. La relazione tra l’uomo e l’oggetto è un rapporto di spazio e di tempo. Ci sono riferimenti simbolici costanti, ricchi, e Tadini stesso sottolinea quanto il suo lavoro sul Profugo abbia come scopo l’innesco della libera associazione simbolica. L’opera viene proposta come racconto e come porta per una riflessione sul mondo e sulla propria condizione così come faceva Beckmann.

max beckmann – departure

Ad arricchire il percorso simbolico sui profughi di Tadini troviamo mele, in ricordo dei peccati, alberi, in ricordo dei boschi fiabeschi della paura e della perdizione quanto dei riferimenti biblici, pesci fuor d’acqua come dichiarazioni inequivocabili di crisi d’identità. Questo peregrinare dell’uomo da un’odissea all’altra è il suo “destino”.

Uno dei trittici della serie, attraverso l’analisi simbolica da svolta sull’opera di Tadini ho scoperto che è chiaramente dedicato a Max Beckmann. Lo troviamo raffigurato con tanto di medaglia al suo valore artistico conferitogli dalla città di Dusseldorf prima delle persecuzioni Naziste. Nell’ultima tea di questo lavoro di Tadini avviene una sorta di immedesimazione, di fusione tra Tadini e l’artista tedesco. Alla maniera di Bekmann osserviamo un uomo in sella alla bicicletta imprigionato come uno dei tanti personaggi delle tele del pittore tedesco. La bicicletta era il mezzo di locomozione di Tadini e pertanto è evidente il nesso simbolico. La terza tela esce dalla narrazione della storia di Beckmann e porta Tadini nella riflessione dell’essere profugo e perseguitato nel 1989.

No particula place to go di Emilio Tadini

Per descrivere questa sintesi, questa immedesimazione, alla maniera di Tadini ho scelto di spiegare così l’opera, in prima persona.

NO PARTICULAR PLASE TO GO

Che ti hanno fatto Max, amico mio?

Ho letto la tua storia anche sul giornale e poi ho visto i fatti attraverso i tuoi occhi.

Le scene immortalate nei tuoi quadri.

Ecco cosa hai provato quando si sono posati davanti all’orrore, alla tortura.

Quando hanno guardato il degenerarsi dello spirito e

credevano di potersi liberare del brutto mettendolo al macero:

Arte degenerata.

Eri un pittore proprio come me.

Avresti anche fatto a meno di metterci la livida luce

A segnare smorfie dai contorni neri

A legare i corpi come fantocci

A distorcere e storcere e ridere per niente

Lì nei Music Hall,

mentre uomini diventavano fantocci

mentre corpi diventavano pacchi da portare e deportare.

Mi sono visto là, insieme a te.

In quel passato non così lontano

Che faceva parte della mia memoria di bambino.

La storia mi stava restituendo la possibilità di rifarlo.

La possibilità di mettermi davanti a una tela

E raccontare l’umano avvicendarsi di fatti

E storie fondate sulla paura, sul dolore

Sulla guerra, sull’importanza di sapere ridere di niente.

Bastava cambiare la data e la storia era sempre la stessa.

Mi sono immaginato catturato mentre andavo in bicicletta per la mia Milano.

MI sono visto imbavagliato.

Mi sono visto colpito da una guardia con la giubba rossa

Alle sue spalle ancora i simboli delle ideologie del passato.

Ridicolo.

Ho sentito spari nella notte

e qualcuno impietosito dalla finestra

di quella prigione di tormenti

passarmi una candela,

riaccendermi una speranza

ridarmi una visione del mondo,

poggiami una mano sulla spalla e dirmi:

coraggio.

E mentre le stelle stavano a guardare e cadevano

Come sempre Nelle notti di San Lorenzo

Noi stavamo qui.

A tormentarci per niente

A torturarci per niente

A farci del male per niente.

Ma noi non abbiamo nessun posto particolare dove andare

Giriamo in tondo su questo pianeta Terra

E gira che ti rigira siamo uomini con i piedi per Terra.

Melina Scalise


Una risposta a "Mettiamoci in viaggio: da Tadini una lezione sulla condizione dell’Uomo"

I commenti sono chiusi.