Coronavirus: insieme tra essere, tempo e nostalgia

E’ arrivato il Coronavirus e all’improvviso ci siamo trovati, a livello globale, di fronte a un nemico comune da combattere: la paura della fine. Per la prima volta nella storia dell’umanità questa “emozione” la viviamo in diretta, tutti insieme (grazie ai nuovi sistemi di comunicazione e “trasmissione”). Non solo ogni singolo individuo a casa propria, in ogni città, ma anche in ogni Stato. Ognuno reagisce a modo suo. Non eravamo pronti a questo Coronavirus. Nessuno pensava che questo nemico invisibile potesse colpire così. Nessuno avrebbe creduto che ci saremmo dovuti porre il problema della fine con questa velocità. Il fattore tempo è stato ed è decisivo, è imprescindibile. A questa riflessione e a questa emergenza non ci ha costretti nemmeno l’allarme del riscaldamento globale, perchè comunque l’abbiamo percepito come proiettato nel futuro, in là nel tempo.

C’è chi vede nel Coronavirus un giustiziere, chi un messaggio divino contro l’Uomo che ha gestito male il Pianeta. Ogni interpretazione è un credo, e, in qualche modo, ritengo sia una verità (la verità, qualunque essa sia, è sempre una forza e non va mai tolta), ma non bisogna perdere di vista un dato oggettivo: il Coronavirus è un virus. Si tratta di un nemico, nemmeno così letale, ma ancora sconosciuto e altamente veloce che porta a una morte che potremmo definire “condivisa”. Quindi il fenomeno a cui assistiamo, che viviamo, riguarda non solo una lotta del singolo contro la morte, ma della società contro la morte. Inoltre, uno strumento della battaglia è il tempo: noi fermiamo il nostro per rallentare quello del virus.

Emilio Tadini Profugo

Questo cosa cambia? Molto. Questo spostamento della lotta per la sopravvivenza dal singolo alla società, cambia la percezione e il rapporto con la morte. Ci porta dalla fine della vita individuale (che comunque non possiamo evitare ed è accettata), allidea di una possibile fine dell’Umanità che equivale alla fine del “nostro” mondo. Questo è ciò che non vogliamo e non possiamo accettare, che ci rifiutiamo di pensare. Questo spiega perchè c’è chi si affida alle profezie, a punizioni divine e a catastrofismi (meteoriti), pur di avere qualche “certezza” sebbene sia, comunque e paradossalmente, la “certezza della fine” e proponga solo una risposta a: “in che modo arriverà la fine?” . Resta che l’unico vero problema che, la nostra società contemporanea, ha sempre messo da parte è: “la fine”. Un fatto trascurato con l’aiuto di una corsa frenetica allo sviluppo e ai consumi (pensiamo alla resistenza a interrompere, in questo momento di emergenza, le attività, il campionato di calcio, le olimpiadi). Ebbene stop: ” fine” tutti insieme, quasi contemporaneamente. La “fine condivisa”, fino a ieri, ha sempre riguardato le nostre cose non le nostre vite (finisce la batteria, scade il cibo, si rompe la lavatrice, la fine del campionato…) le aziende si sono occupate (anche volutamente) a stabilire delle scadenze (ciò che viene chiamato “fine vita di un prodotto”) per indurci al consumo. Ma ciò che noi non possiamo accettare è di essere merce. Di fronte alla privazione, alla malattia tutto all’improvviso di svela, acquisiamo la consapevolezza che non vogliamo essere numeri, che vogliamo essere persone a prescindere dall’età. Si arriva di fronte ad un’unica riflessione importante che riguarda il senso della vita, ovvero avere ben presente la sua fine e riempirla di contenuti ovvero di ciò che per noi ha valore. Martin Heidegger, in “Essere e Tempo” agli inizi del 900, faceva un distinguo tra la vita autentica e la vita inautentica, quest’ultima era quella che trasformava l’uomo in una cosa tra le cose in un soggetto utile agli altri e svuotato di senso, di peso, di pensiero. La vita autentica è quella che “vive per la morte” nel senso che ha ben presente la caducità delle cose e bada all’essenza, all’essere e si relaziona con il mondo tenendo ben presente che tutto può finire. Così ogni persona ha un suo valore, non solo perchè ci serve in quel momento, ma in quanto essere. Questa elaborazione dell'”essere” e dell'”essere al mondo” non è di un “uomo” filosofico, astratto, teorico, ma, per Martin Heidegger, è di un uomo vero, reale. Dunque questa consapevolezza (razionale) non può prescindere dal sentimento e, nello specifico, da due emozioni: la paura e l’ angoscia.

Stiamo dunque vivendo un momento topico per la storia dell’umanità perchè in un mondo globalizzato, tutti, contemporaneamente, da soli, nelle nostre case (come esseri) e insieme (davanti alla Tv e al Computer) come individui della società (come esseri del mondo) proviamo insieme il sentimento della paura e dell’angoscia e ci confrontiamo con la morte. Si tratta di un’esperienza emozionale condivisa e globalizzata.

Possiamo dunque affermare che il Coronavirus, ha scatenato non solo un processo virale, ma un processo esistenziale: stiamo vivendo un’esperienza come individui del mondo. Nonostante non sia visibile ad occhio umano il Covid 19 è più visibile e tangibile di qualunque catastrofe possibile o temuta e ci pone di fronte ad un altra questione il: qui e ora. Questo tempo del virus ha un tempo che riguarda l'”Hic et Nunc“.

E’ il “carpe diem” delle Odi di Orazio (30 A.C), è il cogliere l’attimo della vita di Lorenzo il Magnifico nel 1490 nelle Odi di Bacco, “

«Quant’è bella giovinezza, che si fugge tuttavia! Chi vuol esser lieto, sia: del doman non v’è certezza».

Così, mentre siamo a casa a rompere la trasmissione del virus e affondiamo le dita nella cioccolata e ci facciamo un cognac e pensiamo all’abbraccio di qualcuno e, se siamo fortunati, lo diamo pensando che potrebbe essere l’ultimo, non facciamo altro che vivere nel qui ed ora, perchè domani potrebbe essere tardi, perchè domani, potrebbe iniziare un’altra storia.

Quando ritorneremo fuori dalle nostre case questo “Qui e ora” ci accompagnerà tanto quanto il senso della fine. Per la prima volta nella storia dell’umanità questa emozione sarà condivisa tra tutti e se il dolore e la paura e l’angoscia sono strumenti di riflessione e di cambiamento non possiamo pensare che dopo tutto tornerà uguale a prima. Questo accadrà in Italia come in Cina, in Francia come in America, in Russia come in Africa.

Emilio Tadini, pittore e scrittore milanese avrebbe detto Now-here, No-where: adesso qui e in nessun posto. Ovvero ovunque e dovunque. Qui e ora.

Questo concetto lo espresse in modo straordinario nel ciclo pittorico Oltremare.

Emilio Tadini Oltremare

Oltremare è il nome di un colore, il noto blu oltremare. Oltremare è simbolicamente andare verso l’ignoto. Ognuna delle tele di questo ciclo ha un fondo con questo colore. Il blu è simbolo del cielo e del mare ed entrambi questi luoghi hanno a che fare con il viaggio, quello sulla terra (pensiamo a Ulisse, a Cristoforo Colombo) e quello verso il cielo (l’ascensione del Cristo): l’immanente e il trascendente. Su questo fondo blu oltremare, teatro di diversi personaggi di Tadini, ci sono le parole Now Here, No-where. L’anagramma di queste è emblematico. E come se Lui, pittore, scrittore ed esploratore della condizione dell’Uomo, volesse dirci, che un concetto non può prescindere dall’altro: noi siamo qui ed ora, siamo viaggiatori del tempo, non appartenenti a nessun luogo e con davanti ai nostri occhi le cose e la fine: profughi. (vedi l’opera Profugo all’inizio dell’articolo).

Sempre Tadini ci ricorda il valore e il senso della Distanza, proprio quella che viviamo adesso, dove, senza il contatto con il corpo (senza la vicinanza fisica, con un prevalente contatto tramite suono o web), tutto diventa solo immagine, figura, suono. Emilio Tadini diceva che la distanza è la condizione di partenza dell’Uomo, dell’individuo, l’unica in cui possiamo percepire noi stessi e il nostro essere separati, soli, individui, essere a se stanti. Oggi che la viviamo, questa distanza, dipendiamo dalle figure, dal mondo fuori dalle nostre finestre. Quel mondo lo ricerchiamo tra le nostre fotografie e ricordi e usciamo sui terrazzi e ci affacciamo per far sentire la nostra voce: la parola, il canto. Ecco Tadini diceva che nella distanza si crea la relazione tra la parola e la figura e questa è l’espressione della nostalgia.

Questo articolo non è altro che l’espressione della mia.

Melina Scalise, ogni riproduzione è vietata senza citare l’autore.