Che una piattaforma social diventi uno strumento di esternazione del dolore è argomento discusso. C’è chi trova nel postare propri vissuti personali, intimi e di particolare sofferenza, una violazione dell’intimità e anche un danno verso terze parti che a volte ne sono coinvolte a loro insaputa.

Eppure, i tempi cambiano, ma non i modi in cui le persone hanno bisogno di superare le proprie angosce, il proprio dolore e persino gestire la propria gioia.
Antropologicamente, in tutte le civiltà, il momento più intenso di dolore dovuto alla perdita di qualcuno che ci è caro prevede una cerimonia pubblica. Che si sia credenti o meno, si sente il bisogno di condividere, di piangere insieme. La stesse parole “condoglianze” e “congratulazioni” che usiamo spesso nei momenti di dolore e gioia sono espressioni di una condivisione, di una partecipazione al sentimento. Nel racconto, nell’esternazione dell’emozione, nel sentimento di empatia e di partecipazione espresso dagli altri, ognuno di noi trova la forza per gestire l’ondata emotiva che ci pervade il corpo e i pensieri.
Esistono momenti della vita, particolarmente forti e intensi che possono essere sopportabili (energeticamente tollerabili) solo se la propria vita torna a far parte di un senso più grande (Dio?), di un percorso comune (l’umanità). Pensiamo per esempio alla perdita di qualcuno che si ama o alla nascita di un figlio. E’ come se il corpo, quella parte di corpo che ci appartiene perchè controllato dalla nostra volontà, sentisse il bisogno di dilatarsi, di appartenere a un corpo più grande (forse materno?) in cui le proprie energie possano espandersi e diluirsi come fumi nell’aria fresca attraverso una finestra aperta verso il cielo.
I social non sono altro che un nuovo strumento di elaborazione di queste energie. Il bisogno di una platea, a volte è l’unica cosa che ci fa sentire vivi. Un tempo, quando si viveva in piccole comunità, ognuno conosceva la storia di tutti, eppure, c’era bisogno di manifestarsi, di rendersi riconoscibili anche a chi non si conosceva, per mostrare lo stato d’animo che dominava la nostra giornata o la nostra vita. Pensiamo per esempio al lutto, al vestirsi di nero, agli uomini che non si tagliavano la barba quando avevano perso un congiunto, ma anche all’abito da sposa o solamente all'”abito della festa”. L’esternazione attraverso l’abito era un far passare a tutti un messaggio chiaro del proprio intimo vissuto al fine di poter ricevere, in quel giorno, in quello stato, un trattamento particolare e l’unico di cui l’uomo può farsi autore: la partecipazione, la comprensione, l’empatia.
Pertanto, a tutti i detrattori delle piattaforme social come strumenti di condivisione dei momenti di estremo dolore e grande gioia si impone una riflessione. L’unica differenza rispetto a un tempo è che la persona può decidere in totale autonomia quando rendere pubblico il proprio stato d’animo (una volta, proprio perchè c’era una maggiore conoscenza reciproca – nelle piccole comunità – era più probabile che la diffusione di un lutto o di una nascita, per esempio, avvenisse attraverso terze persone). Nonostante questo, scrivere su un social del proprio momento interiore rimane un momento intimo perchè l’esternazione di uno stato di sofferenza è sempre una manifestazione individuale di vulnerabilità, un mettersi a nudo, una ricerca di aiuto o semplicemente di partecipazione per ottenere qualcosa che in quel momento è necessario specie se parliamo di: “consolazione”.
Arrivare all’esternazione del sentimento è e resta un atto di forte volontà di superamento e di bisogno di gestire lo stato emotivo per ritrovare serenità (un equilibrio energetico).
Quando ci si trova soli in una stanza con i propri pensieri e davanti un computer non si perde percettivamente la sensazione di essere soli, quasi come un tempo, uno scrittore si metteva davanti a un foglio bianco. A volte è più facile riuscire ad esternare scrivendo su un social che guardando negli occhi qualcuno, a volte, non si ha bisogno della persona che si sta accanto o delle persone che ci sono vicine, ma proprio della platea, quella sconosciuta massa di umanità che ridimensiona la nostra vita, finanche le nostre paure e disgrazie e finalmente ci fa sentire piccoli, comuni, perduti tra gli altri e non unici nel dolore. Del resto un detto popolare diceva “mal comune mezzo gaudio”.
Melina Scalise (è vietata la diffusione del testo o parti di esso senza citare l’autore).
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SI È FATTO CARNE (Francesco Tadini – Storie che lasciano il segno)
in effetti se trovi qualcuno che soffre viene naturale accuddirlo e raccagliore il suo dolore ma avvolte mi chiedo se con questo lo aiuti o lo continui a farlo soffrire
Poni un problema diverso: esprimere dolore come strumento per attirare attenzione…
allora diciamo che si vede una persona stare male lo aiuti solo in quel momento poi si lascia smaltirlo da solo ma cosi uno si comporta da insensebile o lo aiuta ? a volta e difficile capire le persone ?
allora se vedi una persona che sta male lo aiuti solo per quel momento perche se no e come se uno lo viziasse ed e negativo