Menù: storie da gustare, al premio Bancarella cucina 2023

Il libro curato da Maddalena Castegnaro Guidorizzi e Teo de Palma Menù: storie da gustare (Alessio Rega Les Flaneurs) di racconti e disegni di autori vari, tra cui anch’io, è arrivato tra i finalisti del Premio Bancarella Cucina 2023. Il vincitore è stato Pietro Catzola con il suo libro “Il cuoco dei Presidenti” (Solferino), al secondo posto, parimerito per preferenze: Menù: storie da gustare e il libro di Oscar Farinetti “E’ nata prima la gallina…forse” (Slowfood). A seguire gli altri finalisti: “Eros e cucina” di Flavio Pedrotti Moser (Reverdito), “Il gelato tutto l’anno” di Massimiliano Scotti (Mondadori), “La Boqueria e i mercati di Barcellona” di Maria Teresa Di Marco (Guido Tommasi Editore).

Si tratta di una sestina di libri che ha incontrato il gusto dei lettori e che, in modo diverso, trattano il tema del cibo tra curiosità, costume, idee culinarie e immagini.

Si legge nel comunicato stampa del Premio Bancarella:

Un filo rosso collega i finalisti: l’amore. L’amore afrodisiaco, particolareggiato, attento alla scelta della tovaglia, del vino, alla scelta delle pietanze. L’amore per la sacralità del cucinare, del piacere del palato che culmina nell’intitolare piatti a personaggi famosi ed interpreti della storia. L’amore per i dolci, per il gelato, preparato ed elaborato dal miglior gelatiere d’Europa. Non solo come dessert ma anche come accompagnamento ai piatti principali della cucina. L’amore per la divisa militare, per la Marina Italiana. Cene per Ufficiali, che si trasformano in cene ufficiali, per invitati di prim’ordine, Presidenti e Ospiti speciali. L’amore in 52 storie a cavallo del tempo e dei luoghi. Una storia per ogni settimana dell’anno. Una escursione tra Atene, Milano, Waterloo e Alba, tra storie, novelle, tavole e sentimenti. L’amore per le proprie radici, per i luoghi e i cibi che rendono uniche le città multiculturali del mondo, delle quali Barcellona ne è un fulgido esempio e così il suo mercato…la Boqueria.

Consiglio a tutti di leggere i libri in finale, ma non posso invitarvi a scoprire la proposta editoriale di Menù: storie da gustare a cui ho aderito come autore.

Ecco l’elenco degli autori: Rocco Abate, Antonio Ambrosino, Angela Barbera, Oriana Bassani, Anna Boschi, Maddalena Castegnaro Guidorizzi, Urmila Chakraborty, Adriana Colombo, Maria Credidio, Carla De Bellis, Alessandro Dell’Avvocata, Teo De Palma, Laura Evangelista. Ilaria Ferramosca, Francesco Fienga, Erminia Fioti, Cristina Gentile, Roberto Gianinetti, Elham Hamedi, Jonathan Imperiale, Alfonso Lentini, Antonio Lupo, Francesca Magro, Angelo Maisto, Gabriella Maldifassi, Ghislain Mayaud, Rita Mele, Emanuela Mezzadri, Sergio Pallone, Guido Pensato, Gabriella Russo, Melina Scalise, Greta Schodl, Paola Scialpi, Lucia Tancredi, Sergio Tardetti, Gianni Maria Tessari, Vittorio Tonon, Massimo Vaglio, Bianca Visentin, Clarice Zdanski.

Per incuriosirvi sui contenuti del libro mi permetto di anticiparvi il mio racconto: Il libro di ricette di nonno Franco (pag 255) accompagnato dal disegno di Francesca Magro.

“Lievitava la pancia di Maria come un pane sotto un panno, come un seme sotto la neve ad aspettare il disgelo per dare alla luce un fiore. Io ero là a guardare sotto la sua gonna, tra i suoi seni gonfi che preannunciavano latte e l’amavo ancora di più perché era semplicemente vera e incredibilmente bella. Facevo il cuoco di mestiere. Pochi soldi in tasca e tanta voglia di futuro. M’immaginavo a preparar banchetti da re, ma consumavo le mie giornate in una piccola cucina nella periferia di Napoli vicina al Vesuvio. Maria faceva la sarta. Lavorava a casa e tra un orlo, una gonna e una cerniera trovavo tra i suoi maglioni sempre un filo, uno spillo dimenticato. Quando l’abbracciavo spesso mi pungevo, ma era la spina della rosa, era la piccola pena necessaria per perdermi tra le sue carni e rinascere uomo, dimenticando il lavoro e chi mi chiamava, in modo dispregiativo, “Ninuzzo”, mentre io mi sentivo semplicemente Nino.

Ci eravamo sposati giovani, scappati da famiglie difficili ed eravamo disposti a tutto pur di avere la vita che volevamo lontana dai brutti ricordi che avevano segnato le nostre giovani vite.

Mi chiamavano Ninuzzo, diminutivo, in tutti i sensi, ma avevo lo stesso nome di mio padre, Domenico. Ero destinato ad essere di serie B rispetto a lui che mi era padre e boss di una piccola banda di malaffari e trafficanti di auto rubate. Io non volevo avere niente a che fare con lui. Già chiamandomi con un diminutivo mi avevano declassato ad essere l’eterno secondo, l’eterno “figlio di”.

Che ci stavo a fare là dentro, in quella famiglia dove mia madre metteva un piatto di pasta al sugo sulla tavola e, se le scivolava una macchia di pomodoro sulla tovaglia, per lei erano botte? Non lo so.

Che ci stavo a fare… ditemelo voi come si può. E se si può. Mi sentivo nato per sguazzare nel sugo perché avrei preso tutte quelle belle polpette nel pomodoro e le avrei scaraventate una a una contro la porta della camera da letto di mamma e papà pur di non sentir urlare.

Lo sognavo di notte il sugo. Lo sognavo sulla tovaglia, sulle lenzuola, contro il muro, sul cadavere di Ciro che avevano ucciso poco distante dalla porta di casa mia per un regolamento di conti.

Mi svegliavo fradicio e freddo fino a quando non scoprii che potevo svegliarmi così da uomo, sentendo quel rosso nelle vene pronto a desiderare una vita là fuori possibile e diversa.

Quando incontrai Maria mi ero appena tagliato i capelli alla moda e avevo appena cominciato a lavorare nella pizzeria di mio cugino mentre frequentavo ancora l’istituto alberghiero. Stava là appoggiata al parapetto sul lungomare con due amiche e mi avevano colpito le sue gambe. Aveva una gonna corta un tacco alto e un rossetto blu. Na matta mi sembrava. Mi chiesi perché mai dovesse cancellare quel rosso delle labbra che tanto amavano enfatizzare le donne. Ma forse proprio per quel rosso mancato, che mi ricordava le polpette che non volevo più mangiare a casa mia, che mi sentii incuriosito. Mi avvicinai chiedendole se avesse una sigaretta e mi disse subito che, se volevo, poteva procurarmi una stecca di roba buona. Non so perché in quel momento fu Ninuzzo a rispondere e disse: “Fammele vedere”.

Ci appartammo e tirò fuori da una borsa dietro l’angolo una confezione di sigarette di contrabbando e a buon mercato. Le dissi che volevo provarle. Ne comperai un pacchetto e ci sedemmo a fumare poco lontano su una panchina. Mi accese la prima sigaretta e notai un anello d’oro al dito il cui colore strideva con lo smalto nero delle sue unghie curate. C’era una croce disegnata e le chiesi se lei fosse credente. Mi rispose che si chiamava Maria, ma non era credente. Aveva smesso di credere da un pezzo perchè la Madonna le aveva abbandonato un bambino proprio davanti alla porta.

“In che senso?” – le chiesi. Mentre il fumo della mia sigaretta occupava l’aria intorno a noi, scoprii che durante una processione della Madonna del Rosario qualcuno aveva veramente abbandonato davanti alla porta di casa sua un bambino e che suo zio l’aveva venduto come un vitello al mercato. Lei era bambina e ricorda che si chiese per notti e notti se anche lei fosse arrivata in quella casa in quel modo, perché non somigliava né a sua mamma né a suo padre e, diventando grande, voleva assomigliare sempre meno a loro.

“Quasi quasi non voglio più sembrare un essere umano” concluse. A quel punto mi mollò un ceffone e mi urlò: “Ma che vuoi da me che mi parli, che mi chiedi se ho fede, che mi fai dire ‘ste cose senza mettermi la mano sul culo!”.

Quella sigaretta, che tenevo sulle labbra come una foglia secca appesa ad un ramo d’autunno, mi volò per terra e caddi in ginocchio come afflitto dall’aver scoperto quanto eravamo due anime in pena: due anime perse.

Ci fu silenzio. Non si muovevano le foglie, né c’era vento, c’eravamo noi, la notte e il dolore che ci tenevamo dentro.

“Ma che fai? Alzati! Alzati! Sii un uomo” disse Maria. Le abbracciai le belle gambe che aveva e quando le flesse per guardarmi negli occhi sentii che era già amore. Ci baciammo.

Non comprai sigarette di contrabbando, lei perse tutto il rossetto blu dalle labbra e finalmente riuscii a vedere un rossore bello su due guance timide che sembravano mele mature da mordere.

Ci rivedemmo il giorno dopo e, da quel dì, tutte le torte di mela erano mie. Sfornavo alla grande e pensavo di aprire una pasticceria dove arrivavano bambini che sbavavano dietro alle vetrine con le mamme che li tiravano dicendo, “No basta dolci” e invece loro “No! ‘Ma! Solo uno” e facevano capricci e puntavano i piedi. Sognavo musi sporchi di cioccolato e meringhe leggere come neve.

Nevicava quando facemmo l’amore per la prima volta io e Maria. Eravamo a casa di una sua amica davanti al mare e faceva un freddo che non si poteva stare, ma, una volta a casa, non me lo ricordo più quel freddo che faceva, come non ricordo più le mai gelate, i cappelli volati, i maglioni tirati, i pantaloni caduti.

Maria aveva ritrovato il sangue nelle vene, il rosso sulla pelle, la speranza negli occhi. Non stava più sul lungomare con sigarette di contrabbando. Decise di andare a imparare a cucire dalla madre dell’amica che ci aveva prestato la casa al mare. Finalmente vedeva un futuro possibile e a lei non interessava nulla di Ninuzzo perché voleva Nino e, quel Nino che vedevo nei suoi occhi, finalmente mi piaceva assai.

Nino impastava e Maria cuciva. Maria mi chiamava e Nino arrivava. Nino cantava e Maria si affacciava. Fino a che, un giorno, ci vide il padre di Maria e mi voleva menare. Io urlai a Maria di uscire e lei scappò. Ci prendemmo per mano e a gambe levate andammo lontano, al mare, nella casa della sua amica, a dormire sotto il ponte del porto perché a casa, in quelle case, noi non ci volevamo più stare.

Ci costrinsero alle nozze, senza disonore, niente cerimonie da boss perché tanto ero Ninuzzo, preso per pazzo e strunzu. Ma non me ne fregava niente perché io Maria, bella come una sposa, l’avevo vista nuda, nella sua pelle di pesca, nei suoi capelli scompigliati ed io ero il suo sposo, il suo principe che la portava via dalla mala vita per una vita forse ugualmente amara, ma almeno amata.

Andammo a vivere in affitto in una casa davanti al porto. Piccola, ma bellissima. Aveva una finestra splendida, quasi più grande della casa, ma lì c’era tutto quello che volevamo vedere: un orizzonte.

Io iniziai a lavorare in trattoria e Maria a fare la sarta. Si viveva di poco. Come diceva un vecchio film con De Sica di “Pane amore e fantasia”. E la fantasia non mi mancava quando la domenica cucinavo di tutto pur di non fare polpette al sugo. Mi piaceva coccolare la mia giovane donna a pranzo, perché la sera dovevo lavorare al locale. Così tra il rumore della macchina da cucire e una pentola sul fuoco che borbottava si consumavano giornate belle e da ricordare.

Quando arrivò a bussare alla porta Michele io non potevo immaginare che papà fosse morto. Non lo vedevo da un anno: io volevo costruire Nino e dimenticare Ninuzzo. Michele aveva un occhio di vetro e teneva sempre le mani sporche. Non gli diedi la mano e chiesi a Maria di chiudersi a casa che andavo a vedere cosa fosse successo. Ero agitato e l’istinto stava parlando per me. Trovai mamma seduta al tavolo muta e Domenico, il boss, per terra. La mamma l’aveva ammazzato e coperto di sugo come fosse una polpetta infilzata da un coltello. Non fiatai. Non fui capace di dire niente nemmeno quando la polizia se la prese mamma e la portò via. Lei mi guardò negli occhi senza chiedere perdono accettando il suo destino come un animale al macello.

Fu condannata mia madre, ma con delle attenuanti per i maltrattamenti subiti. Andai a trovarla in carcere qualche volta portandole qualcosa da mangiare, quasi sempre cioccolata perché, in carcere, si sa, non ti fanno portare torte fatte in case o lasagne.

Ninuzzo ormai era affogato nel sugo delle polpette e Nino volava sul cielo di Napoli specie quando Maria mi disse che era incinta.

Ricordo fu una domenica mattina. Ero già pronto a preparare una bella peperonata e chiesi a Maria se ci voleva dentro anche un peperone piccante e lei mi domandò: “Ma fa bene al creaturo?” “Ma chi è ‘sto creaturo? Hai invitato qualcuno? ”le chiesi e lei “Non è stato invitato, ma ce lo dobbiamo tenere” e così dicendo mi prese dalla mano il peperone che stavo tagliando e se la pose sulla pancia. Che bella cosa che fu. E pensando ai pupi lasciai i pipi, preparai cuccuzzielli teneri teneri, lasciai u cafè di cui non poteva sentire nemmeno l’odore, comprai babà per le voglie, spezzai ziti e impastai pizze con pommarole fresche.

Il mondo le volevo dare alla mia Maria e tutto questo un giorno finì. Era il giorno di Ferragosto c’era un caldo insopportabile e decisi di andare a prendere un gelato da mangiare a casa. Maria era con una cliente perché doveva provare una gonna. Era una giovane ragazza che arrivava sempre in ritardo agli appuntamenti e così lei rinunciò ad uscire con me. Quel gelato si sciolse tutto fino all’ultima goccia e si perse come il sangue che avevo nelle vene perché mentre tornavo a casa arrivò il terremoto. Il Vesuvio aveva deciso di cantare e la mia casa di crollare.

Sentii arrivare le sirene delle ambulanze, la polizia, la gente che urlava, ma io avevo solo due grandi occhi da tenere aperti per riuscire a vedere il niente che avevo davanti.

Mi portarono a riconoscere Maria in Chiesa insieme ad altre dieci persone che persero i loro parenti in quella maledetta giornata. Quel che c’era, non c’era più e Nino era rimasto solo.

Fu un incubo tremendo. Mi sentivo Nino e mi sentivo perso, ho avuto bisogno di spalancare veramente al massimo gli occhi quando mi svegliai per capire e sentire che tutto quel dolore che avevo provato non era vero e che stavo semplicemente vivendo un sogno.

Mi rasserenai quando mi ritrovai allo specchio del bagno come il Franco di sempre: non vivevo a Napoli, ma a Milano, non ero il figlio di un boss, ma di un avvocato penalista che spesso mi raccontava delle vicende di camorra, mia madre non prendeva botte per il sugo, ma adorava cucinare polpette al punto che non ne potevo più; lei non aveva ucciso nessuno, ma diceva che avrebbe volentieri fatto fuori il marito di una sua amica che veniva picchiata; la mia casa non era stata colpita dal terremoto ed io avevo finito quell’estate la scuola alberghiera ed ero incerto se accettare un lavoro in una pasticceria o in un ristorante.

Capii, grazie a quel sogno così vivido, che avevo tanti motivi per sentirmi fortunato anche se spesso mi sentivo insoddisfatto della mia vita, ma c’era una cosa che mi mancava: Maria. Lei mi era rimasta nel cuore.

Fu così che incontrai tua nonna caro nipote e fu così che quel sogno non lo dimenticai mai.

Ero talmente intriso nell’atmosfera di quella notte che quel giorno mi fermavo davanti alle vetrine dei negozi a guardare i vestiti e mi veniva in mente Maria. Mi sembrava di sentire l’odore dei tessuti, mi immaginavo i fili spezzati attaccati ai suoi vestiti, i suoi baci e l’emozione di attendere insieme lo sbocciare di una vita. Il ricordo di lei mi stimolò il desiderio di un gelato. Lo volevo mangiare tutto, voracemente senza nessun sgocciolamento come per scongiurare ogni brutto auspicio. Me lo stavo pregustando grande, molto freddo e goloso per allontanare del tutto il ricordo di quello sciogliersi così vivido e drammatico e mi sentii più rassicurato nel scegliere una coppa al posto del solito cono.

Dopo aver ordinato un cioccolato e una nocciola mi porsero il gelato e mi voltai per pagare, ma fui maldestro perché, nel prendere il portafogli, la coppa si inclinò e la schiacciai contro la maglietta di Angela che era in fila dietro di me. Un disastro. Con i gelati quel giorno finiva male, mi dissi e invece fu grazie a quel gelato che incontrai tua nonna.

Era bellissima e infuriatissima. Le promisi che le avrei comperato, seduta stante, una nuova camicia e non si fece pregare. Entrai così in una sartoria di quelle di una volta dove tutto mi ricordava Maria e le feci scegliere e provare ciò che voleva per rimediare al danno che le avevo provocato. Quando mi porse la sua maglietta sporca di nocciola e cioccolato l’annusai. Sapeva dei miei gusti preferiti, ma anche di lei che ancora non conoscevo, ma sapeva di buono. Quando uscì dal camerino finalmente mi sorrise. Prese una ciocca di capelli e se la mise dietro all’orecchio e mi chiese: “Ti piace? “ed io risposi: “Sei bellissima”. Lei arrossì e le sue guance divennero rosse come due mele mature, proprio come quelle di Maria nel sogno, ed io allora la invitai in pasticceria a mangiare una fetta di torta di mele. Rimase il nostro dolce preferito per tutta la vita, compreso il gelato alla nocciola e cioccolata.

Quando nacque tuo padre mi sentii come Nino del sogno ed era proprio vero che il pane buono lievita sotto un panno caldo e profuma come l’amore. Forse per questo Gesù prese il pane per nutrire gli uomini e il vino per ricordarne il sangue. Sai, piccolo mio, qualche volta anch’io, confesso, mi sono sentito Ninuzzo.

A volte l’esperienza si consuma nell’immaginazione e può bastare quando è talmente crudele che non la puoi accettare. Ricorda bambino mio anche un sogno può farti guardare il bello che davvero puoi trovare”.

Questa storia il nipote di Franco la trovò dentro un libro di ricette che gli aveva donato il nonno cuoco di fama internazionale e trovò sorprendente scoprire quanto lo zucchero e il sale, anche nella vita, si possono trovare.

Melina Scalise