Architetture del pensiero
Testo critico per Andrea Gnocchi
La rappresentazione pittorica della città nella storia dell’arte ha assunto ruoli diversi. Per esempio nel Quattrocento è stata sfondo della scena umana e divina per esaltare il potere religioso e politico. Nel Settecento la sua raffigurazione spesso documentava il viaggio prima dell’invenzione della fotografia. Nel primo Novecento i centri urbani venivano dominati da prospettive aeree in un tripudio di dinamicità, tecnologia e positività per poi veder spegnere ogni esaltazione alla fine dello stesso secolo, quando la città diventa luogo di alienazione, di vita sopraffatta dal1 cemento indisciplinato e irrefrenabile delle costruzioni e custode di cattedrali industriali abbandonate.
Della città, di questo paesaggio antropizzato, dove la natura addomesticata e la progettazione umana hanno avuto il sopravvento sulla scelta abitativa della popolazione mondiale, Andrea Gnocchi ha scelto di farne un suo racconto contemporaneo. Si è cimentato in un’impresa difficile quanto mai necessaria per esprimere quel cambiamento di inizio del terzo Millennio che porta a una nuova visione del paesaggio urbano ormai definito metropolitano e cosmopolita.
La sua ricerca pittorica l’ha portato ad una sintesi rappresentativa in cui domina un concetto di tempo, di segno attraverso la luce, di struttura e di racconto socio-politico della città che passa attraverso una visione iconografica. Potremmo definirlo un architetto del pensiero, il costruttore di una mappa concettuale del territorio dell’uomo contemporaneo che trova i suoi punti nevralgici nella permanenza illuminante di alcune costruzioni simbolo.
A Gnocchi non interessa raccontare il popolo delle città, né della sua vitalità, industriosità o incomunicabilità come tanti predecessori. Le figure, quando sono inserite nel contesto rigorosamente urbano (non presenta mai riferimenti naturali), servono solo a proporzionare gli edifici e lo spazio. Ciò non significa che non sia interessato proprio a raccontare l’uomo e scopriremo perché.
Nella sua raffigurazione, l’artista, si ferma un attimo prima dalla pura esaltazione della forma architettonica che porterebbe all’astrattismo. Egli rimane vicino all’immagine reale, ma avulsa da riferimenti geografici e temporali. La Tour Eiffell come il Duomo di Milano e il Partenone, hanno la stessa atmosfera, la stessa ambientazione, la stessa appartenenza temporale. Gli edifici prescelti si stagliano da sfondi monocromatici lontani dai colori reali e non riportano dettagli di usura delle superfici. Si impongono da prospettive diverse, anche aeree, in tutta la loro maestosità strutturale con un’eleganza loro conferita dall’essere ed esistere attraverso la luce: sono di luce.
Un fotografo analogico per ritrarre queste vedute architettoniche ne avrebbe studiato la forma, il taglio prospettico e avrebbe scattato loro una o più foto. Poi sarebbe entrato in camera oscura per lo sviluppo. Andrea Gnocchi, come un fotografo, svolge tutti questi passaggi, ma sceglie di non arrivare allo sviluppo, si ferma al negativo. Da fotografo non sarebbe mai uscito dalla camera oscura, da pittore, resta dietro alla tela. Infatti sceglie di dipingere sul retro, quasi come un progettista che getta lo schizzo per un risultato che deve ancora venire e usa la carta grezza. Quel tempo, quel momento di elaborazione al buio della forma possibile grazie alla violenza della luce si traduce per Andrea Gnocchi in un momento magico e supremo. Quelle architetture simbolo sono la luce, in senso metaforico sono i punti nevralgici, le architetture che appartengono alla mappa geografica mentale di ciascun individuo contemporaneo che dopo essere cittadino della sua città lo è di tutte le città del mondo . Attraverso quelle forme si riconosce e reinventa il paesaggio fisico e mentale.
Ed ecco che il lavoro pittorico sulla città di Andrea Gnocchi si rivela alla fine un racconto socio-politico dell’uomo perché ne individua i luoghi simbolo attraverso la storia e le religioni, ne sceglie le imponenze prospettiche che conferiscono potere ed emozione.
Ognuno riconosce gli edifici e le città che ha scelto di rappresentare anche solo attraverso un dettaglio. Chiunque sa della loro storia e dell’appartenenza culturale. Chiunque si sente a casa e attraverso loro e avverte la forza della permanenza temporale che spesso attraversa secoli di storia. Quelle architetture dipinte da Gnocchi sono come strutture radicali che si appropriano del cielo di tutti diventando pilastri su cui sviluppare il futuro che è sempre e solo tutto da inventare.
L’artista si riappropria della luce che sembrava persa con i grigi e le visioni desolate e cariche di sofferenza degli ultimi racconti di città della pittura contemporanea. La luce irrompe. Punte di colore acceso vanno ad esaltare i volumi e danno movimento tanto quanto schizzi di colore, prevalentemente bianco, a far da sfondo. I colori primari con i quali lavora sembrano confermare la volontà di fermarsi alla bozza, del resto lo scopo del colore sembra essere solo funzionale all’esaltazione della struttura e alla potenza della luce che spesso altro non è che sottrazione del colore stesso.
In una società dell’immagine l’artista sceglie di chiamare questo ciclo sulle città #Instacity. Il titolo rimarca, dal mio punto di vista, quanto Gnocchi esprime attraverso la mia lettura dei suoi dipinti. L’ hastag sottolinea che questo ciclo parla di un “non luogo”, uno spazio virtuale, una “camera” che potrebbe essere fotografica, oscura o anche solo la camera in cui ci si può collegare un computer alla rete. Quella “camera” potrebbe essere il punto di osservazione, di condivisione e di racconto di mille città con scatti colti e condivisi da milioni di persone: tutti “stanno in quella città” tutti stiamo e siamo “instacity” . In quel paesaggio di luce che corre in milioni di chilometri di fili che viaggiano da una parte all’altra del mondo, spesso molti restano dietro la tela, in quella dimensione “fantasma” e si fermano un attimo prima della realtà lasciando a pochi la fine del progetto, la costruzione ed invenzione del futuro. Ma questa potrebbe essere l’inizio di un altro racconto e ad Andrea Gnocchi e alla sua pittura devo questa suggestione.
Melina Scalise
“il testo integrale o stralci del testo sono riproducibili solo con citazione dell’autore”
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